martedì 25 novembre 2008

La luce rincorre i cuori


Immagini

La luce rincorre i cuori, d'autunno,
quando nel fango si specchiano i suoi passi.
Prima rallentata, poi veloce,
si fa strada tra i rami bruciati.
Vengo da lontano - gli dice, a un passo da loro -
apritevi ai miei raggi, lasciate che vi scaldi.

Il mare raccolto disegna un piano,
parlante quando nelle onde ricorda la sua voce ardita.
Prima disteso, poi in ginocchio, si fa largo tra i sassi.
Sono la vostra nota - gli dice strisciando -
tenetemi in braccio al riparo dei venti.

Gole e grotte, tutt' attorno,
masticano e sputano.
Prima avide, poi sazie,
prima avide, poi sazie.
Siete stanche di me,
gli sussurra il mare negli anfratti, nei declivi dei ruggiti.
Non lo saremo mai, - gli rispondono -
estenuante e dolce è l'infinito contrappasso che ci lega.

giovedì 26 giugno 2008

Stella carente

Sono la Stella Carente,
sola, e per nessuno importante.
Di sera son tutte sfavillanti,
mentre io, tapina, sto in disparte,
flebile e intermittente.

Saranno tutte presto spose,
lo sento,
in viaggi di nozze per galassie vorticose
sulle note di un valzer romantico e lento,
mentre io regalo poca luce, e a stento.

"Stella Carente,
prendi un mio raggio!
che fai? sei scomparsa? su, coraggio!
prendilo e indossalo stasera,
ti porto oltre i confini di questa sfera."

"Ma sei sicuro, Sole?
questa tua proposta, non so… è veritiera?
c’è Dolcissima Rifulgente
che ti aspetta da più di un' era,
ed è bella, tutta lucente, e sembra sincera."

"Voglio proprio te,
stella carente.
E’ l’essenza di una sposa
che deve essere luminosa."

martedì 24 giugno 2008

Ernesto

Mi chiamo Ernesto,
di mestiere faccio il cantante rock stanco.
Tra un rutto e un peto rilascio interviste.
Porto la camicia fuori dai pantaloni, ma per metà.

Metà davanti, dietro, o di lato, a scelta.
Fumo sigarette e sovente dimentico l’accendino.
Tendo a tenere cocktail tra le mani ed appoggiarmi di fianco, un po’ ovunque.
Porto le Ray Ban, ma non quelle a goccia, le altre. Ce le ho con la montatura nera, gialla e rossa.
Mi si avvicinano donne alle quali dico "... hey", metto le mani in vita e offro da bere.
Non chiedo mai i nomi. Mi invitano a casa loro, ma non sempre mi va di fare sesso.
Dico di no sorridendo, enigmatico.
Porto le Converse di tela, quelle verdi.
L'amico tra le gambe fa quel minimo sindacale, mai di più, a limite di meno.
Inizio a guardare gli uomini.
Ho comprato un cane alla moda, un bull-terrier, ma mi ha abbandonato.
Ho delle fugaci ispirazioni che faccio continuare ai miei collaboratori.
Per i concerti assumo cocaina.
Lì divento vitale.

sabato 17 maggio 2008

lunedì 21 aprile 2008

Si sveglia il cervello


Si sveglia il cervello, si sveglia il corpo.
Apro per un istante gli occhi, li richiudo.
Ancora dieci minuti, solo dieci minuti…
Fase Rem, rapidi movimenti oculari e ultimi sogni mattutini.
In sequenza, rapidi, frammentari, come fotogrammi di una pellicola infinita, li vedo e li vivo.
Li piloto anche un po’. Regista e attrice.
Ora sono sveglia davvero, ma dentro.
Per l’osservatore esterno dormo ancora, o sono morta, a scelta.
A pancia sotto, con una guancia sul cuscino, una gamba piegata e le braccia aperte, mi guardo da fuori, e sembra stia scalando una montagna, una parete verticale.
Ingaggio un braccio di ferro mentale tra me, l’orologio e mio padre.
Loro due non lo sanno, però.
Non voglio svegliarmi quando mio padre è ancora in casa, quindi tiro a letto fin quando posso, con l’orecchio teso a decifrare dai rumori i suoi movimenti, guardando l’orologio a muro ogni cinque minuti.
A volte vinco, nel senso che lo sento andar via, altre volte perdo, nel senso che non posso rimanere a letto, devo alzarmi, è lui è ancora in casa.
L’orologio non vince e non perde, si fa i fatti suoi. Però va, sempre.
Stamattina ho perso. Perfetto, ottimo risveglio, ottimo inizio di giornata.
Ricompongo braccia e gambe scompaginate dal sonno, risento dell’indolenzimento.
Vorrei che venisse un pizzaiolo gigante e mi sfornasse dal letto con un’enorme pala, come una pizza da un forno a legna.
Negli ultimi tempi mi sveglio fracassata, come se qualcuno nel corso della notte mettesse in un sacco di juta le mie ossa e lo sbattesse a terra e contro un muro, come un pazzo.
Poi probabilmente lo stesso personaggio misterioso salda le fratture con una buona colla, scheggetta per scheggetta, e mi ricompone per benino. Tibia, perone, femore, radio, ulna.
Fa un ottimo lavoro, non si vede niente quando mi sveglio, non ho neanche un graffio.
Però mi fa male tutto.
Dovrò dormire con qualche lucina accesa, per coglierlo in flagrante e vendicarmi.
Inforco le pantofole, direzione scrivania. Accendo il pc.
Buongiorno, Microsoft.
Ricognizione facciale allo specchio.
Mi si stanno formando due piccole rughe tra le sopracciglia, giusto in mezzo.
Hanno la forma di una foce a delta, o quella del simbolo della vecchia consolle Atari.
Si chiamano ipoglabellari, ci vengono quando sforziamo la vista, o la comprensione.
Ma cazzo, di notte non vedo… e che faccio? penso? Boh.
Vado in cucina, mio padre è lì.
E’straordinariamente loquace verso le nove, gravemente arzillo.
Probabilmente è sveglio dalle sei – sei e dieci, e ha già praticato un po’ di salubre bricolage pensionistico.
Io ho la pressione di una formica, e sono incazzata a prescindere, solo perché è mattina.
Ho i miei tempi, sono un diesel. Non mi va di parlare, non ora, almeno.
Ho bisogno di una quarantina di minuti.
E invece mi tocca un bel tete à tete, gagliardissimo.

- Ieri sera hai fatto le tre.
- Lo so.
- E che fai oggi?
- Non lo so.
- Che vuoi mangiare?
- Non lo so.
- Sei antipatica.
- Lo so.
- Ma chi ti prende a te? se continui così non ti sposerai mai.
- Ne prendo atto, gentilissimo.
- Prendine atto, brava.
- Grazie.
- Vabbuò jà, io scendo. Statti bene.
- Ok.
- Ciao.
- Ciao.

Deo gratias, se ne è andato.
Siamo due scorpioni, ci amiamo e ci odiamo con la stessa profondità.
Va bene, ciao papi, io faccio colazione.
Mi ci vuole un po’ di televisione, mi ipnotizza mentre si mettono in moto i pensieri.
Mtv, canale musicale, solo videoclip.
Aziono il tubo catodico. E’ una cassa da morto di almeno vent’anni, di quelle con i pannelli laterali di legno scuro. Ma fa il suo lavoro.
Il telecomando l’ha perso anni fa, a causa di una tragica caduta da tavolo.
Per rispetto non abbiamo voluto sostituirlo con nessun telecomando universale, non sarebbe stato lo stesso.
Ogni tanto si rattrista e piange interferenze, ma poi le si dà una pacca vigorosa e si riprende.
E’ una televisione chioccia, una mumy di epoca coloniale, un riferimento per noi tutti, in cucina.
Credo che soffra anche un po’ per il suo aspetto, perché ha visto che nel salone ne abbiamo una al plasma fighissima, extra-slim, taglia 40, ma cerchiamo di non farglielo pesare.
La spolveriamo ogni giorno. E lei è contenta.
Allora: se il primo video mi piace la giornata va bene, se non mi piace va male.
Lo faccio da sempre. Superstizioni intime, cose mie.
No, non ci credo: i Queen!
Su Mtv danno un video dei Queen ogni tre mesi, che culo!
Sarà una giornata meravigliosa!
Ballicchio tra lavello e tavolo.
Prendo la mia tazza, il mio cucchiaino preferito, il latte dal frigo e il pacco maxi dei tarallucci del Mulino Bianco. Li mangio ormai da vent’anni, ho le papille assuefatte: giuro di non sentirne quasi più il sapore.
Voglio scaldare il latte, sperando che mi abbiano lasciato qualche bricco pulito. C’è, c’è.
Il caffé è già fatto, per fortuna.
Tovaglietta pulita.
Controllo se ho tutto, perché quando mi siedo non voglio rialzarmi.
Aspetto che il latte si scaldi, ballicchio.
Immagino un po’ di essere Freddy davanti a centomila persone.
Perfect, latte pronto.
Sediamoci.
Verso il caffé nel latte, abbondo.
Giro un po’ col cucchiaino e faccio il primo sorso.
Le cose acquistano i loro colori.

E poi… e poi c’è lui.
Il maestoso, regale, superbo, ineguagliabile, divino ed eterno Freddy, che non canta, di più.
Prende l’anima e te la porge. L’anima dell’arte, non la sua.
Con una corona in testa ed un mantello di ermellino sulle spalle, a petto nudo.
E un estensione vocale soprannaturale.
Conosco bene quel video, quel concerto.
Lo guardo per l’ennesima volta, e per l’ennesima volta mi si fanno gli occhi lucidi.
Mi fa venir voglia di mangiarmi la vita, come se fosse una mela, a morsi.
Non ho paura di niente. Sono lontana da meschinità e piccolezze.
Non provo invidia, me ne sbatto dei soldi.
Posso ridere di tutto, come te, Freddy.
Posso travestirmi, mettermi una maschera e prendere per culo il mondo intero.
Posso essere una regina come te, un uomo o una donna, una nana o una donna cannone.
Posso tutto.
Nulla è grave.
Sei l’arte, Freddy.
Mi viene in mente una frase, esame di storia del teatro, forse.
“L’arte non è l’imitazione della vita, ma la vita è l’imitazione di un principio trascendentale col quale l’arte ci rimette in comunicazione”
Mi sento al di sopra di tutto e al di sotto di tutto.
Da qualche parte nel mio organismo si stanno liberando sostanze positive.
Ma quanta vita ti scorreva nelle vene, Freddy?
Tanta, così tanta da farti morire.

Intanto mangio un sacco di tarallucci, anche 12,14.
In numero pari perché funziona così: li accoppio, li faccio combaciare dal lato piatto e poi li calo tramite cucchiaino nel latte.
Attendo il loro tempo specifico di inzuppo, che ad oggi si aggira sugli 8 secondi, e poi fagocito.
Il video finisce, come il tempo sacrosanto dedicato alla mia colazione.
Grazie Freddy, grazie Mulino Bianco, grazie papà che hai reso possibile il tutto, e forse anche grazie Dio, se un giorno o l’altro mi decidessi a chiarire il mio rapporto con te.

Questione di topi

Jack il Sorcio tornava nella sua città dopo cinque lunghi anni di assenza.
Era stato al gabbio, in gattabuia.
Aveva visto il sole a scacchi per un interminabile lustro.
Indossava lo stesso impeccabile completo grigio scuro che aveva quando lo beccarono gli sbirri, al Pantegana blu, seduto al tavolo con Susy Soccola, Miguel Mausito, portoricano, e Rattàn Dubal, arabo.
Pessima notte, quella.
Notte di coca, di rhum, di gorgonzola DOP, di tope.
Aveva offerto tutto Jack, come sempre.
Voleva festeggiare. Festeggiare l’ultima vittoria, l’ultima dimostrazione di superiorità del suo clan.
I fatti erano andati così.
Jack era il capo indiscusso di Topham City.
Una leadership ai margini della legge ereditata dal padre e conservata con onore e stile.
Bisognava seguire le sue regole in città, ma erano giuste e sagge, e tutti stavano bene.
Certo non ci si poteva opporre.
Se lo facevi, Jack non ti uccideva, ma ti cacciava da Topham.
Stiamo sopra e sotto, amava dire Jack sorseggiando whisky e stuzzicando palline di mais al formaggio. Alludeva al fatto che comandava sulla terra e nelle fogne.
Un giorno il suo braccio destro, Tore il Roditore, gli disse che quelli di Mouseland volevano una parte delle fogne di Topham. Ne rivendicavano un’area in base ad antichi cavilli di giurisdizione fognaria.
Tore era fedele e taciturno, di famiglia siciliana.
Girava sempre in doppiopetto gessato blu e con uno stecchino tra i denti, armato di una trappola Magnum con silenziatore. Aveva dato prova di grande lealtà a Jack, in passato.
Per lui aveva sacrificato la sua vita privata.
Quelli di Mouseland, comunque, non avevano mai dato fastidio.
Era una colonia di topi virtuosi del canto.
La loro economia si basava sull’insegnamento in scuole del falsetto squittante, di cui solo loro conservavano i segreti della tecnica.
Era brava gente, insomma. Se ne fregavano di avere delle fogne in più.
La richiesta veniva da lontano. Dai confini dello stato, da un' altra nazione.
Da Rinoville. E c’era una topa in ballo.
La stessa topa di cui erano innamorati Jack il Sorcio e L’Africano, il rinoceronte capo di Rinoville.
E Jack lo sapeva.
Susy Soccola era un bocconcino prelibato, che vantava corteggiatori in ogni specie.
Una volta un cavallo le mandò 101 zollette rosse di zucchero, e un coccodrillo una borsetta fatta con la pelle di suo figlio e una boccetta di lacrime.
Nonostante le differenze fisiche, si diceva sapesse soddisfare i bisogni sessuali di tutti i suoi amici.
Con Jack sembrava avesse trovato la felicità.
Lui, innamoratissimo, le dava tutto.
Auto, moto ad acqua se aveva qualche servizio da fare nelle fogne, anelli di brillanti, parrucchiere ogni giorno, libretto d’assegni in borsa.
Ma L’Africano la voleva a tutti i costi, e cercò di distrarre Jack con questa faccenda delle fogne, per rapirla.
Jack lo capì e fece chiudere Susy per una settimana in una camera della sua villa.
Fece ergere delle mura difensiva dai suoi topi migliori, per assicurarsi che nessuno potesse rubargliela.
Dopo, la liberò.
Quando andarono a festeggiare al Pantegana Blu, ci fu il blitz degli sbirri, che lo arrestarono per sequestro di topa.
Avevano le foto in zampa, gliele aveva date Tore il Roditore.
L’Africano era riuscito a comprarselo. Le foto in cambio di una top model di serie A.
Tore non vedeva una topa da almeno quindici anni, e cedette.
In un solo colpo Jack andò in carcere, lasciò la topa amata e perse un amico.

Quando uscì, il suo scopo era quello di vendicarsi.
Sapeva che Susy era scappata, dopo la faccenda. Ma non sapeva dove.

Tornato a casa, disse ai suoi uomini che voleva giustizia.

- Che hai intenzione di fare, Jack?
- Devo andare da lui.
- Cosa vuoi fare, Jack, per Diòtopo! mica quello che pensiamo?
- Sì.
- No, dai, non puoi, è troppo rischioso, nessuno mai ci è riuscito.
- Ebbene sì, avete capito.
- E’ quello?
- Sì. Devo andare dall’ Africano e infilargli la coda nel naso.
- Ma capo, ragiona! a Rinoville infilare la coda nel naso dell’Africano significare morire! e morire avvelenati, che è la morte peggiore!
- Non mi interessa, oramai ho deciso.

Gli si fece il vuoto attorno.
Chi prese la bici, chi la ruota, e se ne andarono.

- Jack, tu non puoi - gli disse il vecchio giardiniere, che aveva assistito alla riunione.

- E perchè mai?
- So una cosa che nessuna ancora sa. L’Africano è morto.
- E come?
- E’ giusto che tu lo sappia. Si mise con Susy quando tu te ne andasti. Dopo un po’ iniziò ad assumere Viagra.
Ti ricordi com’era Susy, d’altronde. Un destino scritto nel nome.
Ieri l’Africano si è fatto blu come l’ippopotamo della Chicco.
Il suo cuore non ha retto più.

Jack non parlò più.
Si versò del whisky e prese qualche pallina di mais al formaggio, come sempre.
Mise su un disco delle Straisand e si rilassò sulla sua poltrona di pelle umana.
Accavallò le zampe e sospirò, con un sorriso obliquo stampato sul volto.

domenica 9 marzo 2008

Dal giapponese

Per ometti e donnine di città che frequentano ristorantini etno-chic.
Evitare, please, evitare, di pronunciare sintagma interrogativo del genere “Andiamo a mangiare DAL giapponese?” .
Poco credibile è, difatti, che in un capoluogo di regione o provincia (considerando immigrati, turisti, clandestini, sfollati, profughi e rifugiati politici) ci sia solo UN cazzo di giapponese.
E che, per giunta, si debba andare tutti a mangiare a casa sua.
La determinazione espressa dalla preposizione articolata “DAL” risulta dunque impropria.
Si dirà, piuttosto, “Andiamo a mangiare in un ristorante giapponese?” o “Andiamo a mangiare giapponese?”.
Oppure, conservando il DAL in questione, si dovranno ulteriormente connotare l’individuo e/o la sua attività, ad esempio:
“Andiamo a mangiare dal nostro giapponese (di fiducia)?” o “Andiamo a mangiare dal giapponese in via Nagasaki?”.
Grazie.

domenica 3 febbraio 2008

Impressioni di febbraio


Quante buste di immondizia intorno a me
guardo il sole ma non c’é
dorme ancora, Rosa russa, forse no
é sveglia, mi guarda non so

Già l’odore dell’incendio odore amaro
sale adagio verso me
e la vita nel mio petto batte piano
respiro diossina penso a te

Quanto CDR tutto intorno e ancor più in là
sembra quasi un mare nero
e leggero il mio pensiero corre e va
ho quasi paura che si bruci

Un commissario, straordinario, tende il collo verso il rogo
resta fermo come me
faccio un passo lui mi vede é già fuggito
respiro diossina penso a te

No! cosa sono adesso non lo so
sono un uomo in cerca di un cassonetto

No! cosa sono adesso non lo so
sono solo, solo con il mio sacchetto…

E intanto il sole tra la nebbia filtra già
emergenza, come sempre, sarà!

mercoledì 23 gennaio 2008

Sandra

Sandra Lonardo Mastella è condannata al domicilio coatto in quel di Ceppaloni.
Il suo buen retiro tra un Columbus day e un party a Capri è oggi una gabbia dorata.
Sì, Ceppaloni! non Cepaloni, Ceppaloni, con la doppia p! ah ah ah! sì, è fantastica, un’aria finissima, si mangia divinamente, tutto è genuino!
Frantumava meningi ovunque, con questa storia. Da New York a Palermo via Milano.
Donna internazionale, self made women, raccontava dei suoi ruspanti natali in Regioneremota con l’allure di chi ha vinto e può guardarsi indietro e sorridere. Ostentava le origini per ispessire il suo vissuto, autoconferirsi un’extra di determinazione caratteriale.
Ora quella città le va stretta come quando era ragazzina, la odia, e ha vergogna di essere lì.
Detesta la contadina che ha il dolce pensiero di portarle uova fresche ogni mattina, ma tiene duro, sorride e ringrazia. Subito dopo scoppia a piangere.
E in questo tempo immobile, dagli specchi dell’antica dimora, si accorge di essere vecchia.